Non mi restava altro che andare.
Anche se le cose del mondo erano ancora con me.
Come, per esempio: un branco di bambini che arrancano sotto una spruzzatina obliqua di neve decembrina; un cerino spartito amichevolmente sotto un lampione storto da una collisione; l’orologio schiacciato di un campanile visitato dagli uccelli; l’acqua fresca di una brocca di alluminio; asciugare la camicia bagnata dopo un temporale di giugno.
Perle, stracci, bottoni, la frangia di un tappeto, la schiuma di birra.
Qualcuno che ti manda gli auguri; qualcuno che si ricorda di scriverti; qualcuno che si accorge che non sei per nulla a tuo agio.
Il rosso micidiale di un piatto d’arrosto sanguinolento; il palmo che sfiora una siepe mentre corri in ritardo a una scuola che odora di gessetti e legna accesa.
Anatre in alto, trifoglio in basso, il rumore di quando ti manca il fiato.
Una gocciolina nell’occhio che offusca un campo di stelle; la spalla che ti duole dove ci hai appoggiato lo slittino; scrivere il nome del tuo amore sulla brina di una finestra col dito guantato.
Allacciarsi una scarpa; fare il fiocco a un pacchetto; una bocca sulla tua; una mano sulla tua; il giorno che finisce; il giorno che comincia; la sensazione che ci sarà sempre un altro giorno.
Addio, ora devo dire addio a tutto quanto.
Il matto che urla di notte; il crampo al polpaccio in primavera; il massaggio al collo in salotto; il sorso di latte a fine giornata.
Un cane che ara l’erba all’indietro con le zampe storte per coprire la sua modesta cacatina; una massa nuvolosa a valle che si squarcia nel corso di un’ora incupita dal brandy; la polvere sul dito mentre scorri la stecca della veneziana, è quasi mezzogiorno e devi decidere; hai visto quello che hai visto, e ti ha ferito, ti sembra di avere solo un’alternativa.
La bacinella di porcellana insanguinata balla a faccia ingiù sul pavimento di legno; l’ultimo respiro incredulo che non smuove la buccia d’arancia lì in mezzo a quel sottile strato di polvere estiva, il coltello fatale appoggiato nel panico sul traballante corrimano di casa, e poi lasciato cadere (buttato) da mia madre (cara madre) (con la morte nel cuore) nel lento Potomac color cioccolato.
Niente di tutto questo era reale; niente era reale.
Tutto era reale; straordinariamente reale, infinitamente caro.
Questo e tutte le cose iniziarono dal nulla, erano latenti in un immenso brodo di energia, ma poi abbiamo dato loro un nome, le abbiamo amate e, in questo modo, le abbiamo portate alla luce.
E adesso dobbiamo perderle.
Ecco cosa vi dico, cari amici, prima di andarmene, con questa istantanea esplosione di pensiero, da un luogo in cui il tempo rallenta e poi si ferma, dove potremo vivere per sempre in un singolo istante.
