leggere

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    Ryuji Taira

    La leggerezza è uno stato di fragilità, uno stato volatile, non duraturo, non ha radici forti. Ma c’è, in questi esseri, una capacità di radicarsi nei suoli più inattesi, nelle fessure dei muri, nelle crepe, una bellezza elementare, una pienezza nel mostrarsi  che non ha pari e che in certo modo commuove.

    © alessandra terranova

una patata

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“Ghirri diceva di sé due cose: che era una patata perché si sentiva molto piantato sulla terra… oppure che gli sarebbe piaciuto essere un sasso. C’era un legame molto forte con la terra, con la sua terra, che si vedeva anche dal fatto che cercasse di tornare a casa anche quando era distante per lavoro. […] Era stanco di viaggiare, di tutta una vita spesa andando in giro, voleva portare le cose che gli piacevano a casa sua.”

“C’era una sorta di stanchezza nel guadare il mondo, nel vedere il degrado…ricordo gli ultimi lavori sul paesaggio, erano lavori sul paesaggio cancellato, sulla nebbia.”

(da Le ultime luci della sera, di Arturo Carlo Quintavalle, la Lettura #272)

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Luigi Ghirri

manicomi

stamani, guardo  La meglio gioventù, con ragazzi e ragazze di 17 anni che non sanno niente di questi anni, che non erano nati ancora e che non sarebbero nati per tanto tempo, mi scopro a pensare quanto io, allora, fossi vicina al personaggio di Matteo, ma l’ho capito solo adesso, dopo aver tanto a lungo immaginato di essere invece l’altro, quello che le cose le guarda ma non le soffre, mi interessavo ai manicomi, a basaglia, leggevo di antipsichiatria, avrei voluto aiutare tutte le sofferenze del mondo, mi sento piuttosto simile a questo personaggio un po’ solitario, allora mi ero anche iscritta a medicina, anche ora  sopporto poco l’idea della sofferenza, quella che non può dirsi, mi lascio influenzare parecchio dalle immagini, è vero, quelle dei film, girando ho trovato questo,

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meditazioni

Che fosse che da qualche giorno le capitasse di sentire chiaramente come dentro di sé in certi momenti parlava un’altra e nuova lingua, come se l’orecchio suo si stesse abituando ai suoni diversi che si propagavano intorno a lei per l’aria, Pedra Alexandronova in quel momento stava passeggiando lungo la riva del mare e si chiedeva, nella sua lingua però questa volta, com’è che non ci si potrebbe, a detta di alcuni, fidare mai delle proprie percezioni e di quali percezioni, allora, ci si dovrebbe fidare. Perché, secondo il ben noto paradosso di Aristotile, se le percezioni di ciascun individuo rispetto a ciò che gli accade intorno sono solo le sue e quindi la realtà in realtà non esiste di per sé, su cosa dovrebbe poter contare un individuo? Voleva dire, proviamo a interpretarla noi che un poco la conosciamo, voleva dire Come faccio a sapere che quello che sento non è vero oppure è vero a seconda dei casi? su quale analisi della realtà mi devo basare per agire? e gli altri, ancora, su cosa si basano per agire, su quali percezioni, su quali sensazioni? essi mettono forse tutto in dubbio ogni volta? pensano di sentire e interpretare sempre bene tutto? o pensano al contrario che il resto delle cose e delle persone sia inconoscibile, insondabile, un mistero profondo?

Le sembrava, a dire il vero, una gran confusione, il mondo.

Marco Belpoliti su John Berger

Marco Belpoliti
J&B
Milano, 13 luglio 2011
da Riga
Chi è John Berger? Uno scrittore, si dovrebbe rispondere, uno scrittore poliedrico, più esattamente, dal momento che non è solo romanziere, ma anche saggista, critico d’arte, poeta, drammaturgo, sceneggiatore cinematografico, giornalista, commentatore politico, documentarista e persino disegnatore. Tuttavia la risposta non è sufficiente perché c’è qualcosa d’altro che connota la sua attività, qualcosa che ha strettamente a che fare con il suo modo d’essere. In ogni campo e attività Berger utilizza non tanto una specifica abilità tecnica – c’è anche questa –, ma, appunto, un modo d’essere, il proprio, che è prima di tutto un modo di guardare.
Come ha scritto in uno dei capitoli del suo volume di saggi dedicati alla fotografia e all’arte, Sul guardare, ci sono “momenti vissuti” in cui l’occhio non è un semplice registratore di sensazioni visive, bensì uno scrutatore sensibile di problemi e di questioni irrisolte sia per l’arte sia per la vita. “Avviene a volte – dice Berger – che la visione di un singolo riesca a distanziarsi dalle forme sociali della cultura esistente, compresa la forma sociale dell’arte. Quando ciò avviene, le opere concepite in base a tale visione vivono in una solitudine che non è solo personale, ma storica”.
Berger sta qui parlando dell’opera di Alberto Giacometti, tuttavia l’affermazione calza perfettamente anche per lui, dato che la sua poliedricità non è solo un’irrequietezza nei confronti delle forme e dei ruoli tradizionalmente circoscritti, per cui difficilmente un romanziere è anche un saggista o un disegnatore o un critico d’arte, quanto piuttosto un modo d’essere in continuo dissidio con la società in cui vive, e dunque anche verso le forme d’arte da essa riconosciute. Detto altrimenti, Berger è, come altri scrittori della sua generazione (Roland Barthes, per esempio, ma anche Italo Calvino, Hans Magnus Enzensberger e Alberto Arbasino), un critico della cultura contemporanea con cui ha ingaggiato un confronto serrato, frontale ma non polemico, complesso ma anche sottile.
Prendiamo Splendori e miserie di Pablo Picasso, pubblicato in inglese nel 1965, uno dei suoi primi libri. Quello che colpisce nel saggio è il modo con cui guarda il lavoro dell’artista spagnolo, la sua intera personalità di uomo e di pittore. Non si concentra come altri solo sull’opera o la legge attraverso la vita dell’artista, ma mette a tema la personalità e l’opera come prodotto di questa. La presenza di Berger in quello che scrive, cosa rara in questo tipo di autori, non sembra transitare per la cruna d’ago di un Io individuale, ma per l’ampio arco del Noi. Ecco, forse proprio questo è il talento peculiare di John Berger, talento senza dubbio naturale: la sua cifra di scrittore. Quello che dà forza al suo scrivere è infatti una forma d’attenzione che lo porta a interrogare di continuo, anche quando racconta in un romanzo, ciò che accade sotto i suoi occhi; e mentre la maggior parte dei critici d’arte fornisce spiegazioni, lui pone invece domande – questa è la forma d’attenzione –, tanto da indurci a credere che la sua ricerca non sia radicata tanto nella letteratura, o nelle arti visive, quanto piuttosto “in più ampie esperienze umane, specialmente in quelle in cui l’energia del corpo supera la normale fisiologia”, per usare le parole con cui descrive l’opera di Picasso. L’energia è uno dei temi di fondo della sua personalità artistica che si esprime nei gesti stessi del suo disegnare e dipingere e che si coglie in ogni riga dei suoi testi: si sente la forza della sua mano (la mano e anche la voce: due energie convergenti).
Questione di sguardi (1972), uno dei suoi libri più belli e giustamente citati, è un perfetto esempio sia della capacità di Berger di guardare il mondo delle immagini senza incagliarsi nei luoghi comuni dell’arte, sia di fare opera di critica sociale, ovvero di mettere in discussione i presupposti visivi della cultura contemporanea, senza con questo gettare il discredito sulle immagini, senza demonizzarle. Berger ama le immagini e dialoga con loro in modo amoroso: appassionato e seduttivo. Questione di sguardi nasce da una fortunata trasmissione televisiva, dal medesimo titolo, Ways of Seeing, andata in onda alla Bbc a cura di Berger stesso; di questa origine reca il peculiare segno grafico: la scelta dei caratteri e l’impaginazione sono fortemente visivi. Il libro è composto di testi e immagini; alcuni capitoli poi sono composti solo di immagini; il testo, sia perché in neretto sia per il corpo prescelto, sembra una didascalia che accompagna le immagini, le affianca, le circonda, senza mai soffocarle.
In questo modo il lettore legge contemporaneamente immagini e parole, parole che diventano immagini, immagini che contengono parole. E non si tratta solo d’immagini di quadri, opere artistiche, ma anche di fotografie pubblicitarie, mescolando così motivi sublimi e motivi umili. Qualcosa che ricorda il lavoro di Marshall McLuhan, alla fine degli anni Cinquanta, ma senza la corrosiva intelligenza e l’insolenza intellettuale, il sarcasmo e la provocazione del critico e massmediologo canadese. Berger non è un iconoclasta, aspira piuttosto a una sorta di classicità, ma scomposta. Meglio: una classicità critica. Continua a leggere “Marco Belpoliti su John Berger”